Professioni – La Ricercatrice Scientifica

Proseguendo il nostro viaggio nel mondo delle professioni oggi intervisterò la Dott.ssa Sara Redaelli, Senior PhD all’Università degli studi di Milano Bicocca.

Cosa l’ha spinta a scegliere questa professione?

Da piccola sognavo di fare l’archeologa, per girare il mondo, scavare e scoprire antichi reperti. Poi, grazie alla mia professoressa di scienze del liceo, sono rimasta affascinata dallo studio delle cellule e dei meccanismi che ne regolano alla perfezione il funzionamento. Ho così capito che avrei potuto incanalare il mio interesse per la ricerca e la scoperta in questo campo.

Quali studi ha dovuto intraprendere?

Al termine del liceo mi sono iscritta al corso di laurea in biotecnologie farmaceutiche. Ho poi proseguito i miei studi per ottenere il titolo di dottore di ricerca in medicina traslazionale e molecolare. Il dottorato è infatti un passaggio più o meno obbligato per chi vuole fare ricerca scientifica.

Ha avuto qualche figura di riferimento?

La mia attività si svolge quasi esclusivamente in laboratorio, quindi, al di là delle conoscenze teoriche acquisite durante il corso di laurea, è stata fondamentale la presenza di un tutor. Posso dire di essere stata molto fortunata in tal senso, perché il mio tutor, con cui lavoro tuttora, mi ha saputo trasmettere non solo le nozioni pratiche per progettare e svolgere in modo corretto gli esperimenti, ma anche la passione per questo lavoro.

In quale ambito si svolge la sua ricerca?

Il mio gruppo di ricerca lavora nell’ambito delle malattie oncologiche del sangue, in particolare leucemie e linfomi. Svolgiamo sia ricerca di base, volta a studiare il funzionamento delle cellule tumorali per definire quali eventi determinano lo sviluppo delle malattie, sia ricerca traslazionale che mira a portare le conoscenze di laboratorio negli ospedali per migliorare l’approccio terapeutico al paziente.

Ci può raccontare brevemente una sua giornata tipo?

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La Dott.ssa Redaelli in laboratorio

Uno degli aspetti più belli del mio lavoro è che ogni giornata è diversa dalle altre. Il rovescio della medaglia è che spesso so quando inizio, ma non so quando finisco! Tipicamente inizio a lavorare alle 8.30, mi divido tra lavoro al bancone (la parte che preferisco in assoluto), analisi dei dati ottenuti, studio e progettazione degli esperimenti successivi. Raramente esco prima delle 19 e, se gli esperimenti lo richiedono, anche il sabato e la domenica si sacrificano. Spesso poi ci sono studenti da seguire, riunioni a cui partecipare e lezioni da preparare: non ci si annoia mai! Ecco perché il primo esperimento della giornata è sempre la preparazione del caffè!

Cervelli in fuga: qual è la sua opinione?

Ho fatto parte della categoria “cervelli in fuga”! Dopo il dottorato, infatti, ho trascorso un anno e mezzo in Germania grazie ad una borsa di studio dell’AIRC. Non l’ho però vissuta come una fuga, ma più come una possibilità di crescita professionale e personale. Certo, non è stata una scelta facile, mi è costata parecchi sacrifici, ma, a conti fatti, è stata un’esperienza positiva sotto tutti punti di vista. Al termine della borsa ho comunque deciso di rientrare, proprio perché non sentivo di dover fuggire dall’Italia, ma, anzi, credevo e credo tutt’ora che si debba cercare di portare avanti ricerca di qualità nel nostro Paese. Per molti miei colleghi, invece, lasciare l’Italia è una scelta quasi obbligata e spesso è anche una decisione definitiva, perché, una volta fuori, rientrare non è semplice e spesso non è conveniente né per la carriera né dal punto di vista economico.

Quali difficoltà deve affrontare chi sceglie questa professione?

Il problema principale credo sia la scarsa considerazione della ricerca in Italia. Si dice spesso che la ricerca dovrebbe essere il motore della crescita italiana, ma a livello pratico gli investimenti statali sono assolutamente insufficienti per tradurre questo slogan in realtà. Il gruppo in cui lavoro va avanti grazie a fondi privati, ma anche questi non sono semplici da ottenere, soprattutto per giovani ricercatori che vorrebbero diventare indipendenti. Accanto alla scarsa considerazione, c’è il problema del precariato, perché sia nelle università che negli istituti di ricerca la possibilità di stabilizzazione è pressoché nulla e il numero di anni da precario è limitato per legge. Presto o tardi, quindi, ci si scontra con l’impossibilità di continuare a fare il proprio lavoro. Sono proprio queste difficoltà che portano al fenomeno dei cervelli in fuga di cui paravamo poco fa.

Che consiglio darebbe ad un giovane che volesse intraprendere questo percorso?

Credo che sia importante essere onesti, quindi credo che gli descriverei i pro e i contro del mio lavoro, un po’come sto facendo in questa intervista. Se non scappa a gambe levate, forse è un buon candidato per iniziare questo lavoro! Sicuramente poi consiglierei di passare un periodo all’estero per vedere come si fa ricerca in altre realtà: aiuta a crescere a livello personale, ad acquisire una mentalità più aperta e a stringere relazioni e collaborazioni che sono alla base del nostro lavoro.

Se avesse la possibilità di tornare indietro nel tempo rifarebbe la stessa scelta?

Onestamente dipende dai giorni, ma probabilmente il più delle volte la risposta è sì. Quando gli esperimenti vanno bene è difficile immaginare di rinunciare alla gioia della scoperta, per piccola che sia. E’ una sensazione che fatico a descrivere, ma le assicuro che è tanto bella da permettermi di non demoralizzarmi quando gli esperimenti non vengono e devo ricominciare tutto da capo.

Cosa si auspica per il futuro?

A livello personale, spero di non perdere mai la passione per il mio lavoro, perché è il motore che permettere di accettare i tanti compromessi che fanno parte del mio lavoro, a partire dal precariato. Mi auguro anche che a livello nazionale cambi il modo di considerarci: non solo giovani fortunati perché fanno il lavoro per cui hanno studiato, ma persone preparate che andrebbero valorizzate. Qualche segnale comincia ad esserci, soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione del dottorato di ricerca. All’estero è un titolo tenuto in grande considerazione, mentre da noi non solo non è considerato, ma è visto a volte quasi come un ostacolo, soprattutto fuori dall’università.

Grazie per l’attenzione e alla prossima intervista!

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39 anni (ancora per poco), laureata in Psicologia della Comunicazione e delle Organizzazioni, lavoro da dieci anni nelle Risorse Umane e nello specifico da sette nel Diversity Management. Grandissima appassionata di libri e cinema, amo viaggiare alla scoperta del mondo e fissare le mie emozioni attraverso la macchina fotografica. Per questo mi rispecchio nel motto della rivista Life: "Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, guardare dietro i muri, trovarsi l'un l'altro e sentirsi. Questo è lo scopo della vita".

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