FLESSIBILITÀ – dagli antichi Romani ai nativi digitali

Dibattiamo sull’impossibilità di non poter avere o garantire la stabilità lavorativa e che spesso la flessibilità è considerata sinonimo di precarietà, ma se facessimo un salto indietro nel tempo, constateremo che lo stesso assunto avrebbe un altro valore.

In occasione dell’incontro organizzato da AIDP Lazio “Smart working oltre le mode”, il Presidente David Trotti ci ha ricordato che l’art. 1628 del CC del Regno d’Italia del 1865 disponeva il divieto ad impegnarsi a prestare la propria opera presso terzi, se non a tempo e per una DETERMINATA impresa – in quanto legarsi per sempre ad un datore di lavoro evocava una forma di schiavitù -.

Andando ancora più indietro nel tempo, nel Diritto romano, il lavoro subordinato stesso era tutt’altro che un diritto, addirittura era la vera e propria schiavitù, tanto che potremmo definire il rapporto di lavoro come quello spazio temporale che intercorreva tra l’assoggettamento di uno schiavo e la libertà, nel processo di emancipazione.

Oggi, che di acqua sotto i ponti del Tevere ne è passata ed i rapporti sociali, i valori, i diritti, hanno avuto continue evoluzioni, estremizzando il concetto, potremmo chiederci se gli schiavi di oggi sono coloro che non hanno lavoro ed hanno perso altresì dignità e libertà.

Così, qualsiasi siano le riforme di lavoro, le tipologie organizzative applicate nelle aziende, le “ere industriali” del momento, non possiamo dimenticare di porre al centro la Persona e le proprie relazioni sociali.

In particolare oggi che il tempo non rispecchia più un reale indicatore del rapporto di lavoro subordinato, dobbiamo comprendere quali siano i nuovi elementi distintivi del rapporto di lavoro.

D’altronde anche nell’ordinamento giuridico alcune norme, ne è dimostrazione recente Legge 81/2017, determinano nel rapporto di lavoro subordinato, la liceità della prestazione pur senza essere presenti sul proprio posto di lavoro, o meglio ci porta a considerare il posto di lavoro come un concetto spazio/temporale avulso dai canoni che conosciamo.

E’ arrivato il momento riflettere sulla reale distinzione tra lavoro subordinato e autonomo e la citata legge certo non ci aiuta, inserendo al I Capitolo la “Tutela il rapporto autonomo” e nel II Capitolo, il “Lavoro Agile” regolato quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato.

Errore? Orrore? O un semplice “lapsus Freudiano”?

Dal punto di vista dottrinale il “lavoro agile”, lo Smart Working, sembra poter essere più svincolato dal paradigma spazio – temporale di quanto lo sia il lavoro autonomo – coordinato, spinto anche dall’elemento che vede le aziende rincorrere l’utilizzo della tecnologia, o meglio la cultura, SMART già presente e consolidata all’esterno delle loro mura.

In particolare le nuove generazioni, che si affacciano al mondo del lavoro, hanno un innato istinto all’utilizzo dei più avveniristici device e del modo in cui questi strumenti permettono di comunicare, muoversi, comprare, giocare, pur standosene in qualunque luogo ed a qualsiasi ora del giorno.

Queste modalità di relazioni, sono parte di una società che evidenzia nuove necessità di gestire gli spazi ed i tempi di vita e mal si conciliano con le regole troppo rigide del lavoro.

D’altronde, se la velocità del cambiamento ha subito un’impressionante accelerazione, le organizzazioni aziendali, se non lo stanno già facendo, avranno la necessità di integrarsi in un ambiente esterno evoluto nei tempi, negli spazi e nelle quantità di informazioni che vengono scambiate; devono adeguare la propria struttura a modalità di lavoro utili a gestire l’attuale fase imprenditoriale 4.0.

Pertanto, mentre da un lato sarà necessario attrarre i giovani, dall’altro è opportuno adeguare la professionalità presente, ad un sistema di competenze trasversali, utili a governare la fase di digital trasformation.

Tale rappresentazione individua un ambiente organizzativo complesso dove agiscono generazioni diverse, nuove tecnologie, ambienti esterni instabili e soprattutto una eccezionale velocità di cambiamento.

Necessario è un nuovo modo di lavorare che, da una parte possa rendere l’organizzazione flessibile e adeguata al continuo mutare del contesto e dall’altra permetta alle persone di conciliare la propria vita con le esigenze del lavoro. Una organizzazione più social dove le linee gerarchiche vengono attenuate da legami di coaching e il paradigma comando e controllo sia sostituito da obiettivi / risultati.

La modalità di lavoro “smartworking” svilupperà in quelle organizzazioni dove il ruolo del “capo” e il suo insano piacere del potere, lascerà il posto ad un manager capace di sviluppare una leadership di vicinanza di coinvolgimento.

Un contesto in cui il processo di formazione dovrà essere costante e capace di sviluppare capacità necessarie ad alimentare il sistema stesso.

Lavorando su progetti trasversali all’organizzazione, oltre a raggiungere gli obiettivi prefissati, svilupperà nei team un valore aggiunto nel saper fare e soprattutto il SAPER ESSERE.

Essere consapevoli che si è parte di un sistema in continua evoluzione e nel quale le persone evolvono con il sistema stesso, per la loro realizzazione e il valore dell’organizzazione.

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Amo relazionarmi, amo gli sport di squadra (in particolar modo, il basket) ed amo le sfide. Sono curioso, ma non ficcanaso, e ciò mi porta a conoscere ed imparare cose nuove, ogni giorno. Recentemente, la curiosità di comprendere gli sviluppi dell’’attuale contesto giuslavoristico, mi ha portato ad ottenere la Laurea in Servizi Giuridici per l’Impresa, facoltà di Giurisprudenza. Questo sono io, dopo poco meno di mezzo secolo di vita, dopo l’essere padre, da circa quindici anni, di una splendida figlia e dopo una ventina di anni di esperienza in diverse direzioni risorse umane. Attualmente, oltre al Coordinamento delle attività Normative del personale, nella Direzione Risorse Umane di Atac SpA, ho il piacere di collaborare con il Centro Studi di AIDP con il quale cerco di sviluppare argomenti di attualità. In particolare, ho sviluppato interesse per il tema del “dialogo” inteso come ponte per mettere in relazioni le diversità, con l’obiettivo di trasformarle in risorse, alleanze, sinergie e ove non fosse possibile, di coesistere con esse. Dialogo, nel senso, soprattutto, di saper ascoltare e a tal proposito mi piace ricordare una frase, tratta da un libro di Don Andrea Gallo :“L’importante è tendere l’orecchio oltre le ristrette mura della nostra angusta cerchia dei soliti noti. Dal DIALOGO con i laici, con gli atei, con gli agnostici, con i credenti di altre religioni non possono che nascere curiosità, rispetto tolleranza e amicizia.” Per il futuro? E’ questo lo spirito con cui mi impegno ad approcciare in ogni azione che mi trovo e mi troverò a compiere.

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