Il dialogo, un ponte per non rimanere isolati nel passato
- Pubblicato in Gestione risorse umane, Strumenti per il mio lavoro
- Scritto da Corrado Cingolani
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Le relazioni sociali in un contesto globale passa attraverso la voglia l’ascolto e la comprensione delle esigenze degli altri, il “dialogo” è soprattutto saper ascoltare comprendere le idee altrui e non solo per capire se le nostre sono accettate o meno.
Abbiamo tutti voglia che qualcosa cambi, migliori, a volte sento parlare di voglia di nuovo, chi vuole rottamare, chi invece formattare, altri si spingono a voler radere al suolo.
Non è un problema di terminologia, credo che sia una questione di sostanza, sembra che basti buttare ciò che c’è sostituendolo con ciò che ognuno di noi pensa possa essere la “formula magica”.
Ho la sensazione che oggigiorno, ma forse già da oltre venti anni, fin da quando, cioè, si parlava di fine della Prima Repubblica ed arrivando ai giorni nostri, dove si accenna al declino della Seconda Repubblica, ci si voglia in qualche modo illudere che basti cambiare terminologia, cambiare le persone cambiare paradigmi e tutto procederà per il meglio.
Non è pensabile che sia sufficiente cambiare gli attori, gli strumenti ed i vocaboli, è necessario predisporre il terreno, il contesto sul quale basare ciò che di nuovo intendiamo costruire.
Sono certo che non può essere così semplice e sono altrettanto certo che siamo nella discontinuità, nella zona grigia del passaggio, siamo nel confine in cui si abbandona la patria e si intravedono nuove terre, ma non se ne conoscono ancora le caratteristiche; navighiamo in acque sconosciute trascinati dalla congiuntura che si muove in coordinate che non rientrano nelle mappe che possediamo, risultando pertanto insufficienti: “hic sunt leones”.
La discontinuità ci allontana dal vecchio ma non è il nuovo; sicuramente ci disorienta ma è necessario saper affrontare questo spaesamento e saper stare sui confini tra vecchio e nuovo per comprendere ciò che da dentro non potremmo vedere e cioè il cambiamento del nostro modello complessivo a cui facciamo riferimento.
E’ necessario pertanto cambiare il nostro modo di pensare ed agire per essere sempre adeguati al momento.
In questa epoca il modello industriale è superato, non rappresenta più il motore dello sviluppo; le società industriali occidentali con i loro fondamenti di liberismo e economia di mercato, le società cioè della globalizzazione e dell’ipercompetizione quali regolatori dei processi economici, in questa attuale fase del capitalismo evidenziano i loro limiti.
La criticità di questa transizione del modello industriale, capitalistico o socialistico che sia, sembra risiedere nel concetto meccanicistico quale sinonimo di standardizzazione, uniformità, organizzazione scientifica (con contributi fondamentali del Taylorismo e Fordismo).
La predeterminazione, pianificazione, l’efficienza hanno determinato una macchina “quasi” perfetta, che ha permeato anche il contesto sociale, basandosi su coerenza razionalità e dove il sistema resta però chiuso e impersonale e impermeabile nell’ “hic et nuc”.
Oggi questo paradigma andrebbe superato tanto che anche le società industrialmente avanzate, si sono evolute grazie all’addizione di creatività, fantasia, invenzione innovazione, perseguendo la concezione che non può esserci il senso di compiutezza; non c’è l’unica strada da seguire.
Si lascia il richiamo alla semplificazione che insieme all’uniformità, sono rassicuranti ed eliminano la fatica ed il dubbio di assumersi le proprie responsabilità “la soggezione incondizionata all’autorità evita il rischio della libertà” (E. Fromm).
La strada da intraprendere in questa nuova era non potrà essere la continuazione del modello industriale, sotto nuove vesti, non è il riprendere lo stesso viaggio dopo una sosta, ma è il cambiare l’idea stessa del viaggio e ripensare alla nostra meta.
E’ necessario pertanto un passaggio mentale, accettare che ci possano essere più approcci che coesistono e interloquiscono; un modello che assumerà più complessità e quindi incompiutezza propria, non determinando una rappresentazione esaustiva e che pertanto si alimenterà e si evolverà attraverso il “dialogo”.
Finisce l’era dell’antagonismo, della conflittualità distruttiva nella logica dualistica dell’ “aut aut”; con difficoltà ed esitazione ci si deve addentrare in un mondo in cui è applicabile la logica dell’ “et et”, non oppositiva, non semplificatoria e sicuramente più conflittuale e complessa.
Non si tratta di non avere i propri convincimenti o punti di vista ma piuttosto di riconoscere che la nostra non è l’unica posizione possibile:” non esiste solo un punto di vista” (P. Picasso), è necessario quindi accettare di essere parziali e approssimativi, assumere la relatività e l’incompletezza di ogni prospettiva.
La complessità è pertanto un dato di fatto con cui confrontarsi e per farlo è necessario imparare a dialogare.
Dialogo, inteso come ponte per mettere in relazioni le diversità con l’obiettivo di trasformarle in risorse, alleanze, sinergie e ove non possibile di coesistere con esse.
La complessità induce al bisogno di organizzazione ma certamente diversa da quella che nasceva del concetto del modello industriale, organizzare pertanto inteso come costruire e ricostruire frontiere, stabilire connessioni e lavorare sui processi.
Questo porta certo a maggiori rischi e costi nell’investimento per rendere le differenze comprensibili e integrabili.
In tutto questo l’elemento nodale è il dialogo, quale relazione centrale dell’agire sociale, politico ed organizzativo nella vita di tutti i giorni come scambio fra diversità, condizione di convivenza.
C’è dialogo dove ci sono diversità che si incontrano, che si utilizzano ma non si confondono, senza schiacciarsi ma utilizzandosi per travasare gli uni agli altri i propri saperi e le proprie convinzioni.
Dialogo come modalità di scambio reciproco di interdipendenza è perfino conflittualità; quella sana che smuove le acqua e genera nuovi dinamismi.
Tutto questo sembra cozzare rispetto agli atteggiamenti dei singoli, che a torto o a ragione si ergono a “leader” e arrogandosi il ruolo di portatori di qualcosa di nuovo, mi sembra invece che trasmettano gli stessi concetti con modalità diverse.
Dialogo è ascolto, ascolto delle altre opinioni e la vera forza è quella di riuscire a fare sintesi, poter condensare il tutto in un pubblico interesse, nel bene comune e non nel bene collettivo di una sola parte, seppur maggioritaria che sia.
Mi piace ricordare la frase che ho letto in un libro scritto da una persona che dell’esperienza e della vita vissuta ne ha fatto una bandiera per affrontare la quotidianità definendosi, o amando la definizione che gli veniva cucita addosso di “prete di strada”, Don Andrea Gallo, che nel suo libro “Come un cane in chiesa: Il Vangelo respira solo nelle strade” ha scritto:
“L’importante è tendere l’orecchio oltre le ristrette mura della nostra angusta cerchia dei soliti noti. Dal DIALOGO con i laici, con gli atei, con gli agnostici, con i credenti di altre religioni non possono che nascere curiosità, rispetto tolleranza e amicizia.”
Corrado Cingolani
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