Demansionamento dei lavoratori, un gioco da ragazzi col Job Act

Nuova tappa per il Job Act: emanato il decreto per il demansionamento del lavoratore. L’art. l’art. 2103 c.c., sostanzialmente modificato dall’art. 13, dello Statuto del Lavoratore, stabilisce che il lavoratore “deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. …Ogni patto contrario è nullo”. In particolare l’art. 13,della legge n. 300/1970 ha introdotto, in tema di mansioni, il principio della “inderogatio in pejus”, ad opera della pattuizione individuale. Si tratta di un principio-cardine del diritto del lavoro, specificamente contemplato dal legislatore per gli aspetti più significativi del rapporto di lavoro. Detto principio, però nel corso degli anni ha già subito diverse deroghe sia dal legislatore che dalla giurisprudenza. In sintesi:

l’articolo 4, comma 11, della legge n. 223/1991, stabilisce che gli accordi stipulati in sede di procedure di mobilità possono stabilire, in deroga all’articolo 2103, c.c., l’assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori;

le disposizioni in tema di tutela della disabilità in caso di infortunio o malattia (legge n. 68/1999) e quelle a tutela della maternità (d.lgs. n. 151/2001), prevedono l’assegnazioni di mansioni diverse, anche se inferiori;

la sanzione della nullità dei patti di demansionamento è peraltro superata anche da specifiche previsioni contrattuali, tra cui l’art. 20 del CCNL, del 2012, del settore credito (che, a tutela dell’occupazione e prima di ricorrere all’applicazione della legge n. 223/91, stabilisce la possibile “assegnazione del lavoratore a mansioni diverse anche in deroga all’art. 2103 c.c.”),

a livello di contrattazione aziendale (o territoriale) una generale causa di deroga al principio di invariabilità “in pejus” delle mansioni è stata inoltre introdotta dall’articolo 8 della legge n. 148/2011.

E arriviamo alla delega conferita al Governo dall’art. 1, comma 7, lett. e), della legge n. 183/2014, che intende rivedere ulteriormente la materia, superando di fatto il disposto di cui all’articolo 13 della legge n. 300/1970. La norma di portata generale,  si applicherà ai lavoratori subordinati, con vecchi e nuovi contratti e recita così: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”. Così come è formulata la norma, non c’è dubbio che al centro c’è il potere unilaterale dell’imprenditore, in quanto “la modifica degli assetti organizzativi” vuol dire tutto e niente e non esistono specifiche o dettegli delle modifiche degli assesti. E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta invece il passaggio a un livello più alto. Prima, infatti,  l’assegnazione a una mansione superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività ,con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi. Inoltre, il testo prevede che “possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione” Questo significa, soprattutto nel caso dei neo assunti (con il sistema della tutela crescente) che il lavoratore deve accettare le condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità. Sicuramente il legislatore, nel formulare detta norma, ha tenuto conto del periodo contingente di crisi economica e, per salvaguardare posti di lavoro, ha preferito ridurre le tutele del lavoratore, ma così come è formulata, la norma rischia di sfavorire del tutto migliaia di lavoratori, che possono ritrovarsi a firmare accordi individuali, anche se in sede protetta, loro malgrado.

Il professor  Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna, sede di Ravenna, sostiene che il decreto prevede un “duplice declassamento“, che potrà avvenire non solo in senso verticale, ma anche orizzontale. Il professore si riferisce a un semplice cambio di espressioni nell’articolo del codice civile modificato dal Jobs act. Il testo prevede che il lavoratore debba essere adibito a “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, mentre prima si parlava di “mansioni equivalenti“. Cosa cambia tra mansioni “equivalenti” e “dello stesso livello”? In apparenza nulla, ma in sostanza la differenza c’è. “Ora sarà possibile declassare un lavoratore mantenendolo all’interno dello stesso livello”, spiega il professore che, per chiarire la questione, ricorre a un esempio. Si pensi a un’impresa che produce biciclette e motociclette e a un operaio che per tanti anni si è occupato di bici. A un certo punto, l’azienda decide di dismettere il comparto moto e di spostare il dipendente proprio in quel settore, destinato al declino, pur tenendolo all’interno dello stesso livello. “Prima l’operaio aveva un futuro, la sua carriera era assicurata – spiega il docente – Con il passaggio alle moto, è collocato su un binario morto. Prima del Jobs act, questa operazione era un declassamento, ora non lo sarà più.

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Marco Petrino, 47 anni. Responsabile Amministrazione del Personale in diverse aziende Romane, attualmente Senior HR Consultant presso F2A (consulenza del lavoro). Nel lavoro sono riuscito a far coincidere le conoscenze tecniche con i miei interessi privati: il teatro. Gli strumenti della comunicazione, dell'emotività e della conoscenza psicologica li ho fatti confluire nel ramo tecnico. Un binomio di successo che mi ha sempre dato la possibilità di guardare oltre, sotto ogni punto di vista.

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